𝐏𝐚𝐥𝐚𝐳𝐳𝐢𝐧𝐚 𝐋𝐀𝐅, l’esordio alla regia di 𝐌𝐢𝐜𝐡𝐞𝐥𝐞 𝐑𝐢𝐨𝐧𝐝𝐢𝐧𝐨, racconta in modo asciutto, intenso e credibile uno dei tanti aspetti – forse il meno ricordato – dello 𝐒𝐜𝐚𝐧𝐝𝐚𝐥𝐨 𝐈𝐥𝐯𝐚: il grande caso di mobbing collettivo di cui furono vittime, negli anni 90, più di settanta persone.
Ma il merito principale del film, secondo me, sta nell’aver esplorato i risvolti psicologici e sociali che hanno reso possibili questa e altre porcate legate al Siderurgico.
Quante volte ci siamo chiesti o, da tarantini, ci siamo sentiti domandare “𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐞̀ 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞?”, “𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐡𝐚𝐧𝐧𝐨/𝐚𝐛𝐛𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐩𝐨𝐭𝐮𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫𝐦𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫𝐥𝐨?”? Ecco, Palazzina LAF, tra le righe, dà delle risposte. Semplificando, si può parlare di 𝐮𝐧 𝐦𝐢𝐬𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐢𝐠𝐧𝐨𝐫𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐞 𝐦𝐚𝐧𝐜𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐭𝐢𝐯𝐞, 𝐝𝐢 𝐞𝐠𝐨𝐢𝐬𝐦𝐨 𝐞 𝐝𝐢𝐬𝐩𝐞𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞.
Quando l’operaio Caterino esulta perché lo mandano alla LAF, da un lato dimostra di non avere gli strumenti per capire che è una fregatura, ma dall’altro ha ragione, perché è 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐦𝐞𝐠𝐥𝐢𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐤𝐞𝐫𝐢𝐚. E quando, senza spoilerare troppo, accetta un incarico non troppo pulito, sembra quasi che, più che per tornaconto personale, lo faccia perché finalmente qualcuno gli sta riconoscendo un ruolo, gli sta dando importanza.
Quando gli operai si tengono lontani dalle iniziative dei sindacati perché “tanto non cambia niente”, da un lato 𝐬𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐨 𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐚𝐜𝐜𝐨𝐫𝐠𝐞𝐫𝐬𝐞𝐧𝐞 𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐟𝐮𝐧𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐟𝐞𝐳𝐢𝐚 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐚𝐯𝐯𝐞𝐫𝐚𝐧𝐭𝐞𝐬𝐢, ma dall’altro hanno le loro ragioni, perché sanno che del sindacato non ci si può fidare fino in fondo.
Consiglio il film a chiunque voglia riflettere sul senso profondo del caso Ilva, al di là dei suoi sviluppi politici e giudiziari. E concludo dicendo che 𝐄𝐥𝐢𝐨 𝐆𝐞𝐫𝐦𝐚𝐧𝐨 meriterebbe l’Oscar anche solo per come urla da una macchina in corsa “Ha cangiate ‘a musica, sindacaaaaa’!”